sabato 19 gennaio 2013

La fitodepurazione: un metodo eco-sostenibile per la bonifica di siti inquinati

Green Technology Aesthetically Pleasing

Una delle sfide fondamentali che nel 21° secolo l’uomo è chiamato a sostenere è la promozione dello sviluppo sostenibile degli ecosistemi nel pieno rispetto di tre esigenze:
A) l’alimentazione,
B) l’energia
C) la salvaguardia dell’ambiente, incluso i cambiamenti climatici e la degradazione dei vari habitat dovuta all’inquinamento.



Le piante, con le loro caratteristiche peculiari,  svolgono un ruolo fondamentale nella risoluzione di queste tre sfide “sostenibili”.
In Europa e nel mondo la maggior parte dei terreni coltivati sono inquinati da metalli pesanti e/o composti chimici organici, per lo più derivanti dalla fertilizzazione fosfatica e dall’uso di fitofarmaci di sintesi. Stessa sorte spetta alle aree industriali, gli ambienti urbani, le zone minerarie,  le discariche e i corsi d’acqua, anche se l’origine degli elementi e dei composti contaminanti è diversa. I metodi convenzionali di bonifica di siti inquinati sono costosi ed alterano le proprietà fisico-chimiche e biologiche dei substrati sottoposti a trattamento, provocando un ulteriore impatto negativo sull’ambiente, infertilità dei suoli e rilascio di nuove molecole inquinanti. Il progressivo deterioramento della qualità ambientale e l’impatto dell’inquinamento sulla salute umana hanno promosso lo sviluppo di ricerche e tecnologie per il risanamento ambientale. Le fitotecnologie rappresentano una valida alternativa alla risoluzione del problema; esse sono tecnologie a basso impatto ambientale che sfruttano i processi fisiologico-biochimici e molecolari tipici delle piante per eliminare, trattare, stabilizzare o contenere gli inquinanti di varia natura presenti, essendo le piante stesse i principali bersagli della contaminazione da metalli pesanti, pesticidi, farmaci ed altro. La maggior parte delle sostanze inquinanti presenti nei terreni e che si riversano nelle acque possono accumularsi negli organismi attraverso la catena trofica e vengono trasferite da un organismo all’altro concentrandosi ulteriormente.

Tre le fitotecnologie emergenti, la “phytoremediation” o fitodepurazione è un metodo di trattamento in situ che usa le piante verdi, e eventualmente i microrganismi associati alla loro rizosfera, per la degradazione, rimozione e/o riduzione della concentrazione degli inquinanti nel suolo, acque, sedimento, aria. Le piante, infatti, grazie alla loro particolare morfologia e metabolismo, sono capaci di esplorare i vari substrati mediante l’apparato radicale, di assorbire e/o stabilizzare contaminanti inorganici come i metalli pesanti, molti dei quali sono anche micronutrienti (Cu, Fe, Zn, Mn, Mo, Ni, etc.), e di decomporre e trasformare i contaminanti organici, come gli idrocarburi, i solventi clorurati, i pesticidi, etc.

In base al tipo di meccanismo metabolico prevalente, si distinguono diverse strategie o applicazioni della fitodepurazione, sintetizzate in Figura 1.

Le piante assorbono gli inquinanti presenti nel substrato attraverso le radici e li trasferiscono e accumulano nella parte aerea o più facilmente asportabile con la raccolta mediante la fitoestrazione o fitoaccumulo. Alcune specie di piante sono capaci di immobilizzare i contaminanti a livello radicale per adsorbimento sulla superficie delle radici o accumulo al loro interno e/o per precipitazione nella rizosfera (fitostabilizzazione). La rizofiltrazione è una tecnica di bonifica impiegata soprattutto in ambienti acquatici, o comunque dove la fase acquosa prevale, e sfrutta la capacità dell’apparato radicale della pianta di trattenere nei propri tessuti gli inquinanti o di adsorbirli sulla superficie dell’epidermide, ricoperta da uno strato mucillaginoso di polisaccaridi (rizoplano). Il risultato è una immobilizzazione dei contaminanti nelle radici della pianta; quando le radici diventano sature, vengono asportate dal mezzo. Altre specie vegetali sono in grado di decomporre e trasformare i contaminanti (soprattutto organici) in sostanze più semplici, potenzialmente meno tossiche, attraverso il processo di fitodegradazione o fitotrasformazione. In alcuni casi la pianta, attraverso le radici, assorbe dal mezzo l’inquinante, che trasporta fino alle foglie e lo immette tal quale (o trasformato) nell’atmosfera mediante il flusso traspiratorio (fitovolatilizzazione). Un altro metodo di fitodepurazione è il cosiddetto controllo idraulico, cioè la regolazione e/o condizionamento dei flussi di acqua nell’ambiente da parte della pianta attraverso il processo di evapotraspirazione, che limita la diffusione degli inquinanti nelle acque sotterranee e superficiali. Questo fenomeno permette di usare le piante come vere e proprie barriere alla diffusione degli inquinanti lungo le sponde dei corsi d’acqua (“riparian corridors”) o lungo il perimetro di siti inquinati (“buffer strips”), oltre che su tutta la superficie dell’area contaminata (“vegetative cover”).

Quando la tecnica di fitodepurazione si avvale in modo specifico dell’interazione tra la pianta e i microrganismi presenti naturalmente nella sua rizosfera oppure appositamente selezionati e introdotti in essa mediante inoculo, si parla anche di “rhizoremediation” o rizorimediazione. In questo caso si crea un rapporto mutualistico tra l’attività radicale della pianta e i microrganismi della microflora indigena e/o i microrganismi esogeni (“plant-microbe symbiosis”), che migliora la biodisponibilità dei composti organici ed inorganici presenti, favorendo e accelerando l’assorbimento e/o degradazione dei primi e l’assorbimento dei secondi da parte della pianta. Un’unica specie vegetale può essere capace di attuare tutte queste strategie o “fitotrattamenti” contemporaneamente, oppure l’uno o l’altro in modo prevalente; molto dipende dalla natura dell’inquinante o degli inquinanti e dalla loro biodisponibilità. La frazione biodisponibile dei contaminanti è uno dei fattori che condizionano maggiormente l’efficacia del processo di fitodepurazione, in quanto può accadere che della totalità delle molecole inquinanti presenti, solo una porzione minima possa essere asportata o degradata dalla pianta. Ciò dipende dalle proprietà chimico-fisiche del metallo o del composto organico responsabile dell’inquinamento, dalle caratteristiche pedoclimatiche e dai processi biologici che interessano il substrato.
La fitodepurazione è una tecnologia emergente nell’ambito dei più moderni sistemi di bonifica e ripristino ambientali. È relativamente più economica dei sistemi di bonifica convenzionali e a basso impatto ambientale ossia eco-compatibile o “verde”, e per questo ha conquistato un largo consenso nell’opinione pubblica (“green technology aesthetically pleasing”). Tuttavia, la sua applicabilità è attualmente limitata a causa soprattutto dei tempi di impiego, relativamente lunghi perché strettamente legati al ciclo di sviluppo delle piante utilizzate, ed alla scarsa “standardizzazione” delle metodologie. A quest’ultimo proposito, per ogni situazione d’inquinamento sarà necessario individuare di volta in volta la specie più adatta da usare, in dipendenza delle caratteristiche specifiche dell’ambiente contaminato e del tipo di inquinanti presenti, allo scopo di realizzare la depurazione ed il recupero del sito, nonché le condizioni più idonee per l’impianto. Per questo motivo la programmazione di qualsiasi intervento di fitodepurazione richiede un’attenta caratterizzazione del luogo contaminato ed una valutazione del rischio sito-specifica, in modo da sviluppare il metodo più adeguato all’obiettivo di risanamento (sequestro, stabilizzazione, contenimento o degradazione del composto inquinante). Lo sviluppo e l’applicazione su larga scala delle tecnologie di fitodepurazione devono dunque essere supportati da una costante attività di ricerca.

Da diversi anni il CNR e in particolare gli istituti IBAF (Istituto di Biologia Agro-ambientale e Forestale, http://www.ibaf.cnr.it) e IBBA (Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria, http://www.ibba.cnr.it/) conducono ricerche di base e applicative sulla fitodepurazione, allo scopo di identificare i meccanismi morfo-fisiologici, biochimici e molecolari che regolano la capacità delle piante di tollerare e/o degradare sostanze potenzialmente tossiche per gli ecosistemi. Ciò permetterà di selezionare specie vegetali utilizzabili in programmi di intervento per la bonifica ed il recupero di siti inquinati da contaminanti di varia natura, con ricadute positive sulla salvaguardia dell’ambiente, la sicurezza alimentare e la tutela del paesaggio. In particolare, lo studio della risposta delle piante agrarie e forestali all’inquinamento ed ai cambiamenti climatici si sviluppa nello studio del funzionamento dei meccanismi metabolici di base coinvolti e nel possibile risvolto di tipo applicativo per lo sviluppo di tecnologie di risanamento ambientale adeguate. Di conseguenza, si realizzano esperimenti in condizioni di crescita delle piante completamente controllate (sistemi in vitro, cella climatica) o semi-controllate (serra, lisimetro, mesocosmo) e si allestiscono impianti in piena aria in ambienti confinati e/o di campo (Fig. 2).


Nell’ultimo decennio, grazie ad un’attiva progettualità e attività di collaborazione tra i gruppi di ricerca degli istituti e con altri enti di ricerca è stato scoperto il ruolo di alcuni importanti meccanismi che le piante hanno sviluppato a livello fisiologico, biochimico e genetico per contrastare gli effetti negativi delle molecole inquinanti. Per lo studio dell’inquinamento da metalli pesanti sia essenziali (es: Zn), che non (es: Cd), sono state utilizzate diverse specie vegetali come Phragmites australis, Lemna minor e Populus spp. (in forma naturale ed ibrida).
A livello fisiologico le piante più tolleranti all’eccesso di metalli sviluppano principalmente due strategie. Le piante così dette “escludenti” sfuggono o riducono notevolmente l’assorbimento di metalli attraverso l’uso di barriere chimico-fisiche o biochimiche (ispessimento e composizione e carica della parete cellulare, selettività dei trasportatori). Le piante “accumulatrici” o “includenti” crescono e si sviluppano pur assorbendo elevate quantità di ioni metallici, che accumulano in alte concentrazioni nei propri tessuti. Appartengono a questa categoria le piante così dette “iperaccumulatrici”, in grado di accumulare elementi metallici in concentrazioni incredibilmente elevate, a partire da 1000 mgkg-1 di sostanza secca, pari allo 0.1 % del peso secco, fino a 10.000 mgkg-1 di s.s. (1% del peso secco), a seconda dello specifico elemento. Questi valori sono considerati normalmente tossici per la gran parte delle specie vegetali; la maggior parte delle piante iperaccumulatrici appartiene alla famiglia delle Brassicaceae e sono caratterizzate da ciclo annuale, al massimo biennale, e scarsa produzione di biomassa, con conseguente ridotta asportazione dei metalli assorbiti. Lemna minor, monocotiledone, è una macrofita acquatica galleggiante, ampiamente studiata per la sua capacità di rimuovere i metalli dalle acque di superficie; può essere considerata una pianta iperaccumulatrice di cadmio. Assorbe Cd, direttamente, attraverso la superficie inferiore della lamina fogliare. Questa pianta raramente fiorisce in natura e il più delle volte si riproduce per gemmazione, raddoppiando ogni 2 o 3 giorni in condizioni ottimali la sua massa vegetativa. È diffusa ovunque. In Italia cresce spontaneamente, ricoprendo vaste superfici di acque stagnanti (laghi, risaie, canali).

Il pioppo non è classificabile tra le iperaccumulatrici, ma per la sua natura di pianta freatofita a rapido accrescimento, alto potere evapotraspirativo ed elevata formazione di biomassa, è capace di assorbire ed accumulare nei vari tessuti notevoli quantità di metalli durante il suo ciclo biologico poliennale. La sperimentazione condotta su questa specie ha permesso di individuare la capacità di assorbire e traslocare i metalli in eccesso, accumulandoli, ad esempio, nei tessuti più vecchi o metabolicamente meno attivi. La senescenza e caduta precoce delle foglie durante la stagione autunnale ne è una diretta conseguenza. Nei tessuti del fusto e della radice il maggiore sviluppo dell’endoderma fa da barriera e filtro all’eccesso dei metalli assorbiti, riducendone il trasferimento nei vasi.
L’attività sperimentale svolta ha permesso di caratterizzare dal punto di vista biochimico e molecolare la risposta della diverse specie vegetali alla presenza di inquinanti, oltre che fisiologico e morfologico-strutturale. A livello biochimico i meccanismi di detossificazione dei metalli messi in atto dalla cellula vegetale sono diversi e coinvolgono principalmente il metabolismo secondario. Le ricerche condotte sulle specie indagate ha consentito di caratterizzarne alcuni, quali il sequestro (“chelazione”) e la compartimentazione dei metalli negli organuli cellulari (soprattutto vacuolo), la sintesi di molecole a basso (es. glutatione o GSH) ed alto (es. fitochelatine, acidi organici, poliammine) peso molecolare capaci di legare i metalli pesanti, la riduzione chimica dello stato di ossidazione dello ione metallico mediante l’attivazione di sistemi antiossidativi (es. ciclo ascorbato-glutatione), la maggiore sintesi di composti polifenolici ad azione antiossidante e di precursori dei componenti della parete cellulare. Di conseguenza, un elevato contenuto di GSH ed un incremento dell’attività della glutatione reduttasi sono associati ad una maggiore tolleranza nell’accumulo di metalli pesanti necessaria a piante che si comportano da iperaccumulatrici come Lemna minor.
A livello molecolare nella risposta del pioppo all’eccesso di metalli pesanti sono stati individuati geni candidati per la tolleranza e/o resistenza codificanti per funzioni di trasporto e di sintesi e controllo dello stato redox del glutatione.
Inutile dire che il coinvolgimento diretto di funzioni legate al metabolismo secondario della pianta interessa, in funzione dell’intensità e della durata dell’esposizione all’eccesso di metalli, vie metaboliche primarie, quali l’attività fotosintetica e il metabolismo dell’azoto. La ricerca finora condotta sulla fitodepurazione ci ha permesso di verificare che la capacità di detossificazione delle piante non è solo specie-specifica, ma anche organo- e tessuto-specifica. Dopo decenni di studi prevalentemente concentrati sulla porzione aerea della pianta, l’evoluzione e l’innovazione dei mezzi strumentali ed analitici sta sempre più favorendo anche l’indagine del comportamento della radice (“the hidden half”) in risposta agli inquinanti, soprattutto quelli diffusi nel sistema suolo (substrato)-acqua. A questo proposito i nostri gruppi di ricerca hanno intrapreso e stanno sviluppando interessanti attività, utilizzando anche Arabidopsis thaliana come pianta modello, oltre alle specie vegetali già citate. Queste conoscenze sono indispensabili per migliorare la capacità di tolleranza e/o resistenza a metalli pesanti ed altri contaminanti da parte delle piante e costituiscono la base per l’individuazione di piante selezionate o geneticamente modificate in grado di accumulare e/o degradare inquinanti da usare in programmi di bonifica di aree contaminate (Fig. 3).

Iannelli Adelaide CNR-IBBA - iannelli@ibba.cnr.it
Di Baccio Daniela CNR-IBAF - daniela.dibaccio@ibaf.cnr.it

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